Il mal di montagna acuto (AMS) è una comune sindrome che si verifica in montagna durante rapide ascese oltre i 2500 metri di altitudine ed è principalmente dovuta ad un aumento della permeabilità capillare. La quota a cui possono insorgere i sintomi dipende dai soggetti: la maggior parte delle persone arriva a 2500 metri quasi sempre senza problemi, mentre oltre i 3000 metri, il 75% dei soggetti soffre di una leggera forma di AMS. E' difficile prevedere chi può sviluppare mal di montagna in quanto non esistono fattori specifici come età, sesso, condizioni fisiche; dipende invece dalla suscettibilità del singolo soggetto. E' stato dimostrato che non è tanto l'altitudine il fattore scatenante, quanto la velocità con cui viene raggiunta. L' AMS è una patologia causata da un mancato adattamento dell'organismo alle alte quote e se non trattata può essere letale. I sintomi insorgono tra le 12 e le 24 ore dopo aver raggiunto una determinata altezza e sono caratterizzati da cefalea, nausea, vertigini, stanchezza, malessere, alterazione del sonno e difficoltà respiratorie. La forma di AMS lieve è generalmente autolimitante: i sintomi iniziano a migliorare a partire dal terzo giorno; mentre le forme più severe possono comportare mancanza di coordinazione (atassia), debolezza gravi e progressione a edema cerebrale e polmonare. In queste condizioni i sintomi passano solo con terapia farmacologica o con la discesa di almeno 400-600 metri. Un buon acclimatamento e adattamento, ed evitare rapide ascensioni, sembra essere una buon metodo per prevenire l'AMS; tuttavia la terapia farmacologica è spesso necessaria. Gli studi dimostrano efficace l'uso preventivo di acetazolamide, che agisce aumentando l'escrezione renale di bicarbonati, rendendo il sangue più acido (acidosi metabolica) e stimolando così la respirazione, che è la chiave dell'adattamento; molto utilizzati anche i glucocorticoidi, in primis il desametasone, riservato per il trattamento di mal di montagna grave e dell'edema cerebrale. Da recenti studi sembra che ci sia una nuova e interessante sostanza che potrebbe avere migliori benefici rispetto a tali molecole, con ridotti effetti collaterali: la quercetina, uno dei più comuni flavonoidi presenti in natura. La quercetina è un flavonoide abbondantemente presente in frutta e verdura: la ritroviamo nell'uva rossa e nel vino rosso, nel cappero, nella cipolla rossa, nel té verde, nel mirtillo, nella mela, nei propoli e nel sedano. E' anche un costituente attivo della calendula, dell'ippocastano, del biancospino ma soprattutto dell' Hippophae rhamnoides L. e del Ginko Biloba, tradizionalmente assunte per il mal di montagna acuto. La quercetina sembra aumentare la riduzione di pH, e dei livelli di PO2 e PCO2 nel sangue arterioso indotti dall'ipossia ipobarica. Aumenta inoltre sodio, bicarbonato e cloro, mentre riduce la concentrazione di potassio; aumenta l’attività di superossido dismutasi, catalasi, glutatione perossidasi e i livelli di glutatione e ossido nitrico nel siero. Questi risultati suggeriscono che l'attività fortemente antiossidante della quercetina possa essere correlata al suo potenziale protettivo sui danni indotti dall'ipossia ipobarica, in effetti dimostrato in diversi studi. Utilizzata come antiossidante in condizioni di ipossia e ischemia, promuove la neuroprotezione attraverso la soppressione dello stress ossidativo, attraverso un miglioramento della funzione comportamentale, attraverso una riduzione del gonfiore del cervello e delle lesioni cellulari: da qui il possibile intervento della quercetina nel trattamento dell'edema cerebrale d'alta quota. Gli antiossidanti hanno inoltre un ruolo importante nei trattamenti di diverse patologie come Morbo di Alzheimer, Morbo di Parkinson, disordini centrali legati all'invecchiamento. La quercetina avrebbe quindi anche un potenziale ruolo nella terapia di patologia non strettamente connesse all'ipossia ipobarica e potrebbe quindi essere utilizzata in protocolli terapeutici per il trattamento di disordini neurodegenerativi.
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Aprile 2018
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Dott.ssa Francesca Brun |
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